Fondazione Pietro e Alberto Rossini presenta la nuova performance di Silvia Giambrone, Atto unico per mosche, a cura di Francesca Guerisoli. Prodotta dalla Fondazione in occasione dell’evento annuale Ville Aperte in Brianza, la performance avrà sede al Rossini Art Site domenica 23 settembre 2018 alle ore 19.30. Il titolo Atto unico per mosche scaturisce dalla fruizione dell’opera: essa può essere vista compiutamente solo da chi, come alcuni animali, ha una visione periferica più ampia. La performance mette il pubblico nella posizione di spiare che cosa accade nel padiglione di James Wines. Le due persone al suo interno – l’artista Silvia Giambrone e l’attrice Dalila Cozzolino – si muovono attraverso due linee d’azione. In scena, la loro vita nuda ed esposta; presentano ciò che generalmente si nega allo sguardo altrui, l’intimità, la fragilità e l’oscenità della solitudine. Noi spettatori assumiamo la posizione di voyeur; ci muoviamo lungo il perimetro esterno del padiglione nel tentativo di abbracciare contemporaneamente la complessità di quegli atti; ma anche muovendoci velocemente da una parte all’altra, il tentativo di comprendere in un unico sguardo entrambe le linee d’azione si rivela fallimentare. La visione incompleta è specchio di ciò che accade in scena: due persone immerse in una ambiguità senza risposta. Sono due o si tratta della stessa persona? Sono fantasmi? Proiezioni?
Ferdinando Pessoa scriveva che se dovessimo prendere atto/comprendere che gli altri hanno una vita emotiva complessa e articolata come la nostra, non riusciremmo più ad essere spontanei (Il libro dell’inquietudine, 1982). Ridurre la complessità dell’altro consente uno scambio più agile, ma al tempo stesso alimenta il senso di alienazione che accompagna l’idea di libertà. Dice Silvia Giambrone: “Se osservassimo esclusivamente ciò che fa una delle due performer, da sola, senza il suo contraltare, si assisterebbe alla rappresentazione di una nevrosi, di una donna che cerca di non soccombere ad una ossessione e dalla quale cerca di fuggire. Se osservassimo esclusivamente l’altra performer avremmo a che fare con qualcuno che viene investito e poi perseguitato da un tormento, da una paranoia crescente e invasiva. La visione di insieme invece, oltre le singole fragilità e solitudini, mostra un dialogo che fa uscire dal registro della follia e fa entrare nella relazione. Tale relazione tra le due performer avviene attraverso lo spazio, l’architettura, che in questo caso, in questa struttura, diventa linguaggio. Lo spettatore è chiamato a scegliere chi guardare, quando guardare, cosa cercare; è obbligato a rintracciare un senso attivamente, diventando così non più spettatore passivo ma colui che esplora performativamente quel limite che lo de nisce come umano.”